Il bunker



Il recupero di una vecchia e dimenticata struttura ipogea, un bunker antiaereo della Seconda guerra mondiale, e la volontà di destinarne il futuro all’arte contemporanea, sono stati da subito i termini inscindibili del progetto, legati da una reciproca e straordinaria utilità allo stesso. Da un lato quindi il bunker. Costruzione risalente al 1943 realizzata dalla Todt, organizzazione collegata al comando centrale tedesco, che aveva il compito di progettare e costruire tutte le opere di carattere militare nei territori occupati. Il rifugio avrebbe dovuto ospitare i malati e feriti, nonchè le sale operatorie e di prima degenza, nel caso di bombardamento aereo del vicino ospedale. Conteneva 14 stanze con volte a botte distribuite in successione lungo un corridoio che collegava le due estremità della costruzione. Non si trattò di una costruzione fine a se stessa anzi, la sua realizzazione avvenne a seguito della decisione di insediare nella palladiana Villa Nordera in Caldogno il comando della Militar Sanitat. Un luogo defilato rispetto al comando di presidio militare tedesco, che si era stabilito in pieno centro a Vicenza, ma che aveva il vantaggio di essere vicino all’aeroporto.
 


Per questo motivo le barchesse della Villa ed un altro fabbricato a queste adiacente vennero adibite ad Ospedale militare della Croce Rossa Internazionale. Si trattava quindi di un sistema di edifici riadattati tra i quali si realizzò il bunker, proprio nell’area interclusa tra le due ali dell’ospedale. La sua drammatica testimonianza di costruzione, concettualmente molto simile al bunker della cancelleria di Berlino, e il tragico rimando alle atrocità della guerra, hanno rivelato quale fosse l’enorme peso della memoria di questo luogo tanto dimenticato quanto integro ed autentico. Immediatamente si è chiarita la misura del confronto tra la storia, la sedimentazione degli eventi, e la contemporaneità del reale.
 



Altro termine era il programma suggestivo ed appassionante, che l’arte potesse offrire un nuovo destino ad una costruzione bellica, un impulso decisivo affinché questo spazio legasse la sua vita ad un nuovo significato. Una funzione di pace, di relazione e conoscenza delle diverse culture, di diffusione delle stesse ma anche luogo del ricordo di un periodo tremendo della nostra recentissima storia, di un passato ancora vivo e lucido nel racconto di molti.
 




Non un contenitore, non un semplice cambio di utilizzo rispetto alla sua funzione originaria ma conoscenza e comprensione di ciò che resiste nel tempo, della natura dell’edificio, della sua possibile modificazione. Non tanto uno spazio per esporre ma luogo per provare, un laboratorio, un luogo della memoria e al contempo della creatività al quale l’architettura non poteva sottrarsi. Certo, il bunker che la storia ci ha consegnato è stato modificato, vi abbiamo apportato delle trasformazioni. Nella zona centrale anzitutto laddove, in luogo di due stanze con volte a botte, si è definito uno spazio più ampio e dalle nuove geometrie che interrompe il senso di direzione che ci conduce nel percorrere i lunghi corridoi in favore di uno spazio autonomo. Ma si è operato anche alle estremità, ai limiti, con la realizzazione degli accessi con i lunghi piani inclinati che portano alla struttura originaria, pensati quasi in senso scenografico come montaggio di immagini in successione. La ricerca della natura delle cose, dell’identità, ci ha condotto nella scelta delle linee, degli spazi, dei materiali. La luce naturale accompagna le nuove costruzioni; nasce dal buio, filtra nell’oscurità, entra dall’alto ritagliando il cielo. Nella nuova sala centrale offre la dimensione del tempo nello spazio. Nei lunghi percorsi che raccordano la vecchia struttura ipogea ai nuovi accessi i bagliori luminosi delle uscite si alternano al chiaro-scuro delle pareti, in una sequenza di linee e piani che si contrappongono alla teoria delle vecchie sale a volta. Di quello che si è voluto conservare si è mantenuta ogni traccia, ogni alone di umidità che il tempo ha depositato sull’intonaco grezzo e tenace dei muri. Nessuno sfregio alle pareti nemmeno come risposta ai necessari requisiti di buon funzionamento delle sale (illuminazione, riscaldamento, segnalazioni, prese di corrente…) per i quali si è scelto, senza alcun compromesso, l’immissione di scintillanti elementi in lega di acciaio che assolvono a tutto, emblemi della capacità e della libertà di utilizzare o rinunciare a ciò che la modernità ci offre.
 




Le modificazioni sono riconoscibili, quasi evidenti, eppure vi è una consonanza tra queste e ciò che si è conservato. Il bunker diviene luogo da attraversare dominato dalle suggestioni dall’atmosfera, dal suono mutevole dei propri passi che vibra nel silenzio delle sale, dalla percezione emotiva e dalla memoria ma anche spazio riconquistato e restituito a nuova vita per le nuove generazioni. Vive, come un tempo, segretamente tra la copertura di terra che lo sovrasta e il livello della falda acquifera che ne lambisce la platea. Proprio l’altissimo livello di falda determinò la quota di imposta della costruzione originaria da cui ne risultò un volume solo parzialmente interrato, la cui parte eccedente venne ricoperta di terra per occultarne la vista dall’alto del volo aereo. Si venne così a formare, in un paesaggio segnato dall’orizzontalità dei terreni agricoli, una sorta di piccolo colle che il passare degli anni e il progressivo abbandono hanno reso sempre più misterioso quanto singolare. Il recupero di questa parte di territorio, nella sua particolare morfologia, è divenuto tema essenziale del processo di trasformazione non solo del bunker ma del più ampio sistema del parco che comprende la palladiana Villa Caldogno e le ristrutturate barchesse. Un sistema dove alla chiarezza dei percorsi e dei lunghi filari di alberi del giardino della Villa si contrappone la esuberante vegetazione che ricopre il bunker e che il tempo renderà sempre più ricca e dominante. Tra la densità dei gelsi si intravedono, uno contrapposto all’altro, gli accessi.


 




Le superfici di acciaio cor-ten a rivestimento esterno dei muri in calcestruzzo, quasi confondono la linea tra la terra e la nuova costruzione. Nella sommità della copertura i camini di aerazione delle stanze a volta ed i cristalli che avvolgono i pozzi di luce della sala centrale suggeriscono, nella loro regolare disposizione, la presenza di una cavità sottostante.
Nulla che riveli i volumi nascosti, nessuna corrispondenza tra ciò che è dentro e ciò che è fuori. Il corpo sotterraneo vive. combatte strenuamente contro le forze naturali che lo avvolgono e ne corrodono i potenti muri che il passare del tempo ha reso sempre più deboli e vulnerabili. L’abomio della guerra è un eco che oggi ci risuona lontano. I muri non devono più proteggere ma farsi prezioso contenitore. Si è lavorato al limite della costruzione grazie alla caparbia ostinazione di alcuni ma anche ad un consenso diffuso che si è amplificato con lo svolgersi dei lavori affinchè questa costruzione potessere raccontarci della sua storia ed essere al contempo testimone del futuro.
 
 

Il testo riportato sopra è stato scritto dall'arch. Enrico Novello. Per leggere la recensione completa cliccate qui.

Diverse riviste di architettura hanno pubblicato articoli sul bunker, tra cui:

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